5 Marzo 2025

di Massimo Angelelli
Sacerdote, Direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la Pastorale della salute

«Avverto nel cuore la “benedizione” che si nasconde dentro la fragilità, perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore». Questa affermazione di papa Francesco è contenuta nel testo dell’Angelus di domenica scorsa, diffuso dalla Santa Sede. Le parole scritte dal Santo Padre portano un tema ricorrente nell’esperienza dei sofferenti. I cappellani ospedalieri e tutti gli assistenti spirituali dei malati si trovano spesso a riflettere sul senso della fragilità. È anche la domanda che più viene loro posta: perché? qual è il senso di questa sofferenza? perché proprio a me? E le risposte rischiano di arrivare un po’ frettolose, magari sentite e poi ripetute, che confondono i sofferenti. Ma nelle parole del Papa troviamo una spiegazione chiara. La benedizione di cui parla Francesco non è «nella fragilità», ma «si nasconde dentro la fragilità». Questa lettura ci aiuta a capire molte cose. Un primo chiarimento è la cancellazione definitiva di quella tendenza doloristica che vorrebbe accreditare la malattia come “voluta” da Dio per la nostra santificazione. Il Dio che dichiara di essere soltanto amore non può desiderare che le persone soffrano, al massimo lo può tollerare, a condizione che questo rappresenti la via per un bene maggiore. La parte che emerge visibile ai nostri occhi è la fragilità intrinseca nell’essere persona. Non un difetto o una mancanza, ma una componente dell’identità antropologica della persona stessa. Siamo fragili: e non è un difetto, ma una caratteristica. Questo non ci rende meno belli o meno preziosi, ma comporta la necessità di essere trattati con cura. Come il cristallo, che sul suo contenitore porta proprio questa avvertenza: fragile, maneggiare con cura. E le persone sono molto di più di un cristallo.

Dentro la fragilità c’è qualcosa di più della sua veste esteriore: c’è il senso del vivere, il fine ultimo di ognuno di noi che è chiamato alla vita. C’è la vocazione all’amore con Dio e fra di noi, c’è la piena realizzazione del progetto che è stato offerto a ciascuno, c’è un “dire bene”, una benedizione che è la Parola di vita pronunciata da Dio per ciascun uomo e donna vissuti e viventi. Ogni sofferente è chiamato a fare un cammino di ricerca e di scoperta. Coloro che si arrestano alla forma esteriore della fragilità vivranno la malattia e la loro stessa fragilità come un limite da superare, rifiutando la condizione stessa, quella di umanità fragile per costituzione, alla ricerca di una invincibilità che è utopia del vivere secondo i propri schemi e obiettivi. Per questi, la morte rappresenta la sconfitta finale, il fallimento che è inaccettabile o piuttosto la liberazione da un male senza speranza, perché non ha un senso, uno scopo.

Coloro che scavano senza sosta, convinti che anche nel buio del dolore e della malattia si possa nascondere un senso ultimo, coloro che vorranno sperare anche quando sembrerà non essercene traccia, allora potranno scoprire quel senso che sostiene, quello scopo che motiva la lotta, quel fine per cui valga la pena di sopportare queste fragilità, il motivo per cui l’obiettivo meriti la fatica. Il premio finale vale l’impegno e il peso della preparazione e della gara. E il premio non può che essere quella benedizione di Dio sulla vita di ciascuno. Non una benedizione generica e unica per tutti, ma piuttosto una benedizione pronunciata da Dio con parole diverse per ciascuno, tanti quanti sono gli uomini e le donne, tante quante sono le vocazioni personali, quanti sono i progetti di bene che Lui ha immaginato per ognuno.

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